L’Europa guarda con timore ai quei quattro migranti che arrivano con i barconi avendo paura dell’invasione.
Ma secondo voi, se una persona sta bene a casa sua, dove può avere la possibilità di crescere i suoi figli serenamente, gli venga in mente di lasciare tutto e andare verso l’ignoto verso un altro paese?
Ma fatemi il piacere...
Vi siete mai chiesti perché queste persone emigrano?
C’è in atto una deportazione di massa e non c’è ne accorgiamo nemmeno.
Da oltre 10 anni la Cina ha iniziato una invasione silenziosa dell’Africa, prima economica acquistato aziende, terreni e Governi...
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La mappa dell'invasione Cinese in Africa (il sole 24 ore)
https://www.laogai.it/cina-africa-i-finanziamenti-cinesi-in-africa-sono-accompagnati-da-un-avvertimento/ |
Si scrive Africa, si legge Cina
Per tenere bassi i prezzi delle merci, Il Partito comunista delocalizza nel Continente nero. In questo modo il gigante asiatico sistema all’estero le sue masse rurali povere
La mappa dell'invasione Cinese in Africa (il sole 24 ore)
http://www.limesonline.com/cina-in-africa-nonostante-la-crisi/2947 |
Negli ultimi cinque anni gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono decuplicati. Se nel 1999 il volume degli scambi era di 5,6 miliardi di dollari, per il 2006 il ministero del Commercio cinese prevede di superare i 50 miliardi di dollari.
Sono ottocento le aziende cinesi presenti in 28 Paesi africani, dove hanno investito 6 miliardi di dollari solo nel 2005 per progetti che vanno dalle costruzioni all'energia, dal petrochimico all'agricoltura. Ma la presenza cinese è molto più articolata e diffusa in tutto il continente. Le relazioni economiche vanno spesso di pari passo con i rapporti diplomatici e i valori crescono in maniera più rapida dei dati aggregati. Ecco una mappa, per forza di cose parziale, della presenza cinese in Africa.
Ed ora anche militare
Se l'Europa procede in punta di fioretto, l'imperialismo di Pechino spadroneggia, avanzando a ritmi incalzanti e con modalità di grande spregiudicatezza. Una penetrazione - ormai - non solo economica e commerciale, ma anche politico-militare
Da formiche.net
Basta osservare alcuni dati e cifre per constatarlo. Due terzi dei Paesi del “continente nero” acquistano armamenti “made in China”. Pechino sta scalzando Mosca dal trono di esportatore numero uno di sistemi d’arma complessi (e “low cost”) nella vastissima, e tormentata, area sub-sahariana. Di pari passo cresce il numero degli addetti militari nelle ambasciate cinesi, già poco meno di una trentina. Quello che – da tempo – era il gigante del “business” (180 miliardi di dollari di profitti, oltre 10 mila aziende attive), si appresta a trasformarsi anche in una sorta di braccio armato dell’Africa. Manovre di “soft power”; partecipazione alle missioni militari sotto egida Onu (la Cina è ottava – nel mondo – come presenza, prima tra i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ); sei miliardi di dollari fatturati in vendite di armi “leggere” tra il 2013 e il 2017, coprendo il 27% del mercato locale. Soldati cinesi combattono nei conflitti in atto in territori turbolenti: nella Repubblica democratica del Congo e in quella del Centrafrica, in Sudan e in Sud Sudan, in Nigeria contro i terroristi islamisti di “Boko Haram”. E Pechino si fa beffe degli embarghi militari occidentali in Zimbabwe, Guinea equatoriale e Burundi. Sente di avere le mani libere. In piena guerra civile non ha battuto ciglio nell’installare una fabbrica di armi leggere a Khartum, comportandosi allo stesso modo in Mali e in Zimbabwe. In questo Paese ha giocato un ruolo oscuro durante il golpe militare che ha detronizzato l’anziano – irriducibile – dittatore Robert Mugabe: i suoi blindati erano presenti (e visibili) negli scontri. Assai discutibili i metodi usati, tra affari e diplomazia semi-armata: tutti i contratti bilaterali stipulati nel settore bellico fanno parte di un pacchetto più ampio di “partenariati” economici di sviluppo. Una strategia adottata su scala continentale almeno dal 2015, quando Xi Jinping annunciò un piano di investimenti per 60 miliardi di dollari, che potrebbero salire a cento. Gli interlocutori sanno benissimo che Pechino opera per tornaconto, non per filantropia: prestiti e “sconti” sono strettamente vincolati al rientro delle risorse investite, a tutto profitto delle aziende cinesi coinvolte. Ma i governi africani hanno poca scelta (per colpa della “timidezza” europea e del grafuale calo di interesse di USA e Giappone) e si convincono facilmente anche in ragione delle pratiche corruttive che “condiscono” le offerte cinesi.Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta”, già agevolata – del resto – dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi. È proprio l’ “hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale, con capacità di proiezione oltremare, in una vetrina in cui dominano – probabilmente ancora per poco – le scelte di Washington, Parigi e Tokio. Altre basi di Pechino potrebbero sorgere in Sud Sudan, in Costa d’Avorio, addirittura in Nigeria. A quel punto gli equilibri internazionali in Africa sarebbero definitivamente stravolti.
Basta osservare alcuni dati e cifre per constatarlo. Due terzi dei Paesi del “continente nero” acquistano armamenti “made in China”. Pechino sta scalzando Mosca dal trono di esportatore numero uno di sistemi d’arma complessi (e “low cost”) nella vastissima, e tormentata, area sub-sahariana. Di pari passo cresce il numero degli addetti militari nelle ambasciate cinesi, già poco meno di una trentina. Quello che – da tempo – era il gigante del “business” (180 miliardi di dollari di profitti, oltre 10 mila aziende attive), si appresta a trasformarsi anche in una sorta di braccio armato dell’Africa. Manovre di “soft power”; partecipazione alle missioni militari sotto egida Onu (la Cina è ottava – nel mondo – come presenza, prima tra i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ); sei miliardi di dollari fatturati in vendite di armi “leggere” tra il 2013 e il 2017, coprendo il 27% del mercato locale. Soldati cinesi combattono nei conflitti in atto in territori turbolenti: nella Repubblica democratica del Congo e in quella del Centrafrica, in Sudan e in Sud Sudan, in Nigeria contro i terroristi islamisti di “Boko Haram”. E Pechino si fa beffe degli embarghi militari occidentali in Zimbabwe, Guinea equatoriale e Burundi. Sente di avere le mani libere. In piena guerra civile non ha battuto ciglio nell’installare una fabbrica di armi leggere a Khartum, comportandosi allo stesso modo in Mali e in Zimbabwe. In questo Paese ha giocato un ruolo oscuro durante il golpe militare che ha detronizzato l’anziano – irriducibile – dittatore Robert Mugabe: i suoi blindati erano presenti (e visibili) negli scontri. Assai discutibili i metodi usati, tra affari e diplomazia semi-armata: tutti i contratti bilaterali stipulati nel settore bellico fanno parte di un pacchetto più ampio di “partenariati” economici di sviluppo. Una strategia adottata su scala continentale almeno dal 2015, quando Xi Jinping annunciò un piano di investimenti per 60 miliardi di dollari, che potrebbero salire a cento. Gli interlocutori sanno benissimo che Pechino opera per tornaconto, non per filantropia: prestiti e “sconti” sono strettamente vincolati al rientro delle risorse investite, a tutto profitto delle aziende cinesi coinvolte. Ma i governi africani hanno poca scelta (per colpa della “timidezza” europea e del grafuale calo di interesse di USA e Giappone) e si convincono facilmente anche in ragione delle pratiche corruttive che “condiscono” le offerte cinesi.Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta”, già agevolata – del resto – dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi. È proprio l’ “hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale, con capacità di proiezione oltremare, in una vetrina in cui dominano – probabilmente ancora per poco – le scelte di Washington, Parigi e Tokio. Altre basi di Pechino potrebbero sorgere in Sud Sudan, in Costa d’Avorio, addirittura in Nigeria. A quel punto gli equilibri internazionali in Africa sarebbero definitivamente stravolti.
http://www.atchuup.com/countries-used-as-dumping-grounds-of-worlds-trash/ |
CONCLUSIONE
La strategia Cinese non usa la “forza” per mettere in atto questa deportazione di persone improduttive , inutili e anzi fastidiose per i suoi scopi, ma tramite i social, imbonitori, fakenews, governi locali corrotti, “convince” queste persone a trasferirsi nei paesi del bengodi. Facendo questo ha la possibilità di attuare la sua invasione per sfruttare le ricchezze naturali dell’Africa e riempirla del suo Inquinamento.
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